In viaggio con Giovanni Tarpani alla scoperta del branding che fa cultura e non vacanza

Prima di questa intervista non avevo mai pensato che negli uffici di un palazzo istituzionale potesse celarsi una sorta di banco per gli imbarchi ‘culturali’. Un gate per viaggi che hanno molto a che fare con i racconti (e viceversa), e dove curiosità e immaginazione possono portarti lontano, soprattutto se hai una guida come Giovanni Tarpani.

Responsabile marketing istituzionale della Regione Umbria, Giovanni Tarpani inizia la sua carriera come dirigente e poi amministratore pubblico negli anni ’80. Timbrare un cartellino ogni mattina per lui è motivo di orgoglio e questo credo dipenda dall’aver sempre intrecciato politica e passione, un ‘bagaglio’ con cui ha girato letteralmente il mondo.

Dove mi ha portato? Non ci crederete, ma partendo dal suo ufficio in Corso Vannucci a Perugia mi sono ritrovata in piena giungla amazzonica, e vi assicuro che è stato un viaggio culturale molto interessante, non certo una vacanza. Seguiteci.

La sezione marketing istituzionale della Regione Umbria come e perché si occupa di cultura?

Si occupa di cultura perché, a dispetto della dizione di marketing, noi ci occupiamo di branding. Il branding è una metodologia di natura anglosassone che applica al territorio il concetto di valorizzazione delle differenze. Differenze che, nel caso dell’Umbria, risiedono nella sua identità culturale, e quindi nei beni e nelle attività culturali che il territorio ospita ed esprime. Chiunque voglia percorrere la strada della creazione e valorizzazione del brand Umbria, non può non avere la cultura tra gli asset strategici.

Come si fa marketing con la cultura?

Innanzitutto va detto che gli strumenti della valorizzazione culturale sono completamente cambiati. Un secolo fa il pubblico aveva una funzione centrale, oggi altrettanto importante è il ruolo svolto dai media, per non parlare degli strumenti che la contemporaneità ci mette a disposizione, come gli store di contenuti in formato digitale. Davanti agli occhi abbiamo scenari impossibili da immaginare appena quindici anni fa.

E poi c’è il problema dell’ottimizzazione delle risorse. E’ indubbio che oggi lo Stato abbia meno risorse a disposizione e che gli enti locali non siano stati in grado di integrarle. Una situazione che ha favorito il ricorso alle tecniche di marketing quale strumento al servizio della cultura (mai pensare che debba funzionare il contrario!), offrendo occasioni di visibilità per i privati. Una strada che è necessario percorrere a cui, però, io credo poco.

Perché ci crede poco al coinvolgimento dei privati?

Ci credo poco per due ragioni: innanzitutto perché viviamo, ormai da sette anni, in una contingenza che si chiama crisi, e che oramai ha assunto i contorni di una condizione strutturale; e poi perché il marketing aziendale che eravamo abituati a conoscere fino a poco tempo fa non esiste più.

Oggi le aziende non cercano di ottenere visibilità per il loro marchio attraverso la cultura, ma puntano più di ogni altra cosa alla creazione di relazioni. Ed è proprio sulla possibilità di sviluppare e di vendere relazioni che si può giocare uno scambio virtuoso, o meglio, un terreno di incontro tra aziende e istituzioni culturali.

E’ chiara questa visione all’imprenditoria italiana?

Nell’imprenditoria più matura mi sembra una tendenza abbastanza consolidata. Sono sempre di più i casi di grandi marchi alla ricerca di soluzioni di “esclusività” (penso, per esempio, all’accesso ai luoghi della cultura per eventi riservati a segmenti di pubblico), piuttosto che occasioni di visibilità sul catalogo di turno.

Una prospettiva decisamente poco gradita al mondo delle Sovrintendenze italiane che si è più volte opposto all’uso degli spazi museali per eventi privati. Cosa rispondiamo in proposito?

Rispondiamo in una maniera molto semplice: tutti dobbiamo adeguarci alla modernità, perché la modernità non si adegua a noi.

A questo proposito ci tengo a dire che nelle mie esperienze di lavoro in ogni angolo del mondo, una chiusura del genere l’ho trovata solo in Italia. Un Paese che non ha eguali nella tutela del proprio patrimonio culturale, ma che sul fronte della valorizzazione è fermo.

Penso sia arrivato il momento di avviare un’opera di convincimento da entrambe le parti: se diciamo che non ci sono i soldi per tenere aperti i musei, non possiamo negare che in alcune occasioni bisogna aprirci a soluzioni più flessibili nell’uso del patrimonio culturale.

Non chiedo la metodologia americana applicata all’Italia, ma un equilibrio fra domanda del mondo della cultura e offerta del mondo dell’imprenditoria.

A proposito di campagne di valorizzazione, ci racconta il progetto Sensational Umbria realizzato con Steve McCurry? Cosa vuol dire portare all’estero il brand Umbria?

Innanzitutto c’è da combattere una percezione che, in alcune aree del pianeta, identifica ancora l’Italia con “pizza e mandolino”. Un’idea che prodotti come l’ultimo film di Woody Allen, To Rome with love, o la campagna Sicily di Dolce e Gabbana non aiutano certo a superare. Si tratta di prodotti che non certificano la contemporaneità italiana. L’Italia e gli italiani oggi sono altro!

La nostra esperienza di promozione del marchio Umbria nel mondo è diametralmente opposta. Per il progetto Sensational Umbria abbiamo scelto un grande interprete della contemporaneità come Steve McCurry e gli abbiamo affidato il compito di ritrarre il nostro territorio con lo stile e la sensibilità della sua arte.

Un’operazione che ci ha permesso di portare il brand Umbria nel mondo: Shangai, New York, Chicago, Buenos Aires, ovunque ne abbiamo avuto la possibilità, ma sempre con un obiettivo ben preciso.

Quale?

Rivolgerci direttamente al pubblico internazionale che volevamo venisse in Umbria perché attratto dal “racconto non di uno stereotipo, ma di un’esperienza”.

Per noi era fondamentale passare dall’idea di vacanza a quella di viaggio.

Gli italiani sono diventati dei bravi comunicatori?

I comunicatori per eccellenza sono gli inglesi e non è un caso che la tecnica di branding sia nata in Gran Bretagna. Gli americani sanno fare buone campagne di comunicazione, ma sono gli inglesi a pensarle. Il problema dell’Italia è la difficoltà nell’affermare la propria modernità; quando vogliamo promuoverci usiamo il nostro patrimonio storico e non l’esperienza ad esso legata. Un grande errore a mio parere.

Perché, è bene dirlo, non è Raffaello che possiamo ‘vendere’ (o Pinturicchio, o il Perugino), ma tutto ciò che è possibile vivere venendo in Italia a vedere Raffaello: cioè un’esperienza.

Un esempio di questo genere, in un ambito completamente diverso, è quello dello chef inglese Jamie Oliver: nelle sue trasmissioni televisive non vende la cucina italiana, ma l’esperienza che c’è intorno alla cucina italiana.

Questo parole mi sembra restituiscano l’immagine di una cultura italiana tenacemente agganciata al passato, in equilibrio precario sul presente e incerta sul futuro, anche solo da immaginare…

La cultura italiana non immagina il futuro perché ha una concezione dei beni culturali tutta rivolta alla conservazione, nel senso più buono e magistrale nell’affermazione. Le faccio un esempio: quando l’Umbria fu colpita dal terremoto del 1997, ero Assessore alla Cultura in Comune a Perugia.

In pochi giorni le immagini del crollo della Basilica di Assisi aveva fatto il giro del mondo e il messaggio che rimbalzava da una parte all’altra dei media nazionali e internazionali era che tutto il territorio fosse in quello stato. In realtà non era assolutamente vero.

Ecco perché, insieme al Ministro del Beni Culturali di allora, organizzammo un concerto all’interno della Galleria Nazionale dell’Umbria con un grande protagonista del jazz contemporaneo, il pianista Brad Meldhau, e ospitammo oltre 100 giornalisti. Avevamo l’esigenza di combattere la percezione del disastro diffuso.

Naturalmente il concerto non risolse i problemi causati dal terremoto, ma fu la dimostrazione di come si potesse usare una metodologia di lavoro per ‘sterzare’ la percezione del patrimonio culturale in una direzione più dinamica, facendone contestualmente un elemento di comunicazione.

Un invito che forse dovrebbe condividere anche il mondo della formazione?

Sul piano della formazione, non mi stancherò mai di dirlo, la qualità riconosciuta agli italiani nel campo della conservazione, a livello internazionale, è indiscutibile. Ho trovato restauratori italiani eccezionali in tutto il mondo, persino nella giungla amazzonica alle prese con affreschi dipinti su pelli di bue.

La stessa cosa non vale per la valorizzazione che, a tutt’oggi, mi sembra un elemento escluso dai percorsi didattici istituzionali. Certo, ai tempi del Grand Tour si veniva in Italia per godere della bellezza estetica, ma oggi la sola bellezza estetica non basta, come non bastano dotti volumi racchiusi in preziosi cofanetti.

Vi sentite avanguardia in quest’ufficio?

No, assolutamente. Ci sentiamo portatori di un’esperienza che speriamo possa essere mantenuta e replicata. Si tratta di una metodologia al servizio di una pratica di lavoro quotidiana, anche se la questione più complicata da affrontare, a mio avviso, è la formazione di una classe politica che agisca con questi presupposti.

Nota dolente il rapporto tra politica e cultura in Italia: ci sono ‘soluzioni’ all’orizzonte?

La dimensione della politica che vedo prevalere oggi non ha una visione strategica per il futuro, è portata alla contingenza, a risolvere il quotidiano. E’ questo ciò che ogni riforma del sistema elettorale fin qui fatta ha imposto.

Ma quotidianità è un termine che non va d’accordo con la parola cultura. E non nel senso accademico, che peraltro non mi appartiene, ma in quella che io considero la sua concezione più alta: il suo essere un asset strategico per la promozione di un territorio.

Purtroppo, guardandomi intorno, anche qui nella mia città, vedo una regressione totale. E non è solo colpa della parte politica che è al governo, ma di una visione errata dell’identità locale: non si può confondere cultura e folklore, non sono la stessa cosa. Considerare una rivisitazione storica come elemento culturale è un errore micidiale.

Forse in questi casi il marketing ha le sue responsabilità…

Non c’è dubbio che in materia di valorizzazione territoriale, il limite del marketing sia quello di creare omologazione, dando vita a quei terribili fenomeni in stile Disneyland. Ecco perché è più convincente il branding: una tecnica che valorizza al massimo le differenze.

Come si arriva dall’impegno politico a occuparsi di marketing culturale?

La mia esperienza politica nasce negli anni ‘70, un impegno che ho trasformato presto in un’attività totalizzante, prima come dirigente e poi come amministratore. Il mio lavoro è sempre stato la mia ancora: non ho mai smesso di portare con me il cartellino per marcare l’ingresso in ufficio. Appartengo a una generazione che ha fatto politica per passione…e non è certo “scesa in politica”.

Nostalgia di una certa politica?

Non voglio dire che non ci sia passione nella politica attuale, ma le motivazioni mi paiono molto differenti. Detto questo, capisco chi fa politica oggi, la sua sofferenza… ma manca una visione del proprio impegno politico come servizio alla comunità. Mi pare prevalga la ricerca del consenso e questo spesso non va d’accordo con la qualità del governo.

Per ritrovare il sorriso, parliamo del progetto Spazio Umbria portato al Fuorisalone di Milano poche settimane fa?

Al Fuorisalone di Milano siamo presenti come Regione Umbria dal 2010 e sino all’anno scorso eravamo l’unica Regione italiana. Il concept di Spazio Umbria – idea nata al festival di Spoleto come esperienza di valorizzazione territoriale attraverso la cultura – è quello di un luogo che raccoglie le migliori realtà imprenditoriali umbre e le eccellenze del territorio per raccontarle in modo innovativo.

Come elemento chiave di questa narrazione abbiamo scelto un font, realizzato dall’Accademia di Belle Arti di Perugia e presentato per la prima volta in occasione di Expo 2015. Il progetto s’ispira all’esperienza delle scritture benedettine e francescane.

Un’operazione condotta non dal punto di vista religioso, ma per sottolineare il valore della scrittura quale trasmissione di conoscenza.

Il carattere, progettato in formato tridimensionale, è diventato il modulo base per prototipi di oggetti – manufatti in vetro, ceramica, legno e carta – trasformati in testimonial dell’esperienza artigianale umbra e del processo di innovazione di prodotto condotto dalle nostre imprese. Nonché della nostra esperienza nel “saper fare”.

Istituzione e imprese insieme, in un contesto innovativo come il Fuorisalone e con un progetto dall’anima decisamente culturale: come ci siete riusciti?

Diciamo che siamo abituati a lavorare così: l’istituzione dà il via alla progettazione, poi cerca sostegno nella capacità di associazionismo delle imprese e davanti all’ideazione artistica lascia il compito a chi lo fa di mestiere, in questo caso l’Accademia di Belle Arti di Perugia.

Noi lavoriamo nell’ottica di valorizzare le esperienze e le energie locali. Non è un caso che l’ultima iniziativa che abbiamo presentato a Milano sia un corso di design che nei nostri piani dovrebbe coinvolgere Accademia di Belle Arti e Università di Perugia. Un connubio non facile sul piano burocratico, ma speriamo che il Ministero di riferimento, il Miur, ci aiuti a realizzare questo “Progetto artistico per l’impresa”, lo abbiamo chiamato proprio così!

E adesso passiamo alle domande finali e, prendendo spunto da Massimo Bernardini, iniziamo con: un luogo da visitare per capire cosa fa innovazione in cultura?

La metodologia di lavoro più significativa, in materia di innovazione culturale, l’ho incontrata anni fa a Ouro Preto, in Brasile, in occasione di un festival jazz.

Ouro Preto è una città riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, con quattro chiese del Settecento e la prima chiesa francescana di tutta l’Amazzonia. E’ lì che ho compreso il valore delle relazioni e il loro uso a fini comunicazionali e di raccolta dei fondi.

Può apparire strano, ma è proprio in mezzo alla foresta amazzonica che ho visto chiaramente il passaggio dalla sponsorizzazione alla rete di relazioni!

E se il consiglio riguardasse un libro?

Ci sarebbero tanti libri da consigliare, ma credo che il Brand Idex sia una lettura obbligata per quanti si occupano di promozione territoriale. Nel Brand Index vengono indicati i fattori che determinano il posizionamento di un territorio e la cosa più interessante è che spesso non coincidono minimamente con quelli inseguiti dalle amministrazioni locali.

A questo proposito vorrei sottolineare che far percepire un territorio come un brand non è turismo. Un territorio si percepisce come brand se c’è una molteplicità di fattori. Il turismo è solo uno di essi, al pari dell’industria che in quel territorio opera. Non è un caso che per la Svezia l’elemento di valorizzazione territoriale più importante sia il design. 

E il consiglio per un film?

Senza dubbio Woodstock. Tre giorni di pace, amore e musica di Michael Wadleigh. E’ la summa di ciò che è insieme mito e metodologia culturale. Un film che rappresenta l’innovazione nel campo della musica e del suo consumo e segna la nascita di un nuovo mercato. Che è poi quello che bisognerebbe sempre fare rispetto alla cultura: dare voce a un nuovo pubblico.

Un pubblico che oggi non può più essere intercettato con metodologie vecchie perché fatto di persone che vivono una dimensione tutta digitale della conoscenza. Ecco perché abbiamo creato ben 26 applicazioni qui in Regione. E’ solo così che si crea futuro.

A proposito di futuro, posso aggiungere una cosa su Woodstock?

Prego..

L’aiuto regista della pellicola era un ragazzo di 28 anni di nome Martin Scorsese, non lo cita mai nessuno…

E noi invece lo citiamo, eccome. Chi apre strade che portano lontano e costruiscono futuro, soprattutto in ambito culturale, merita grande attenzione e… riconoscenza.

Grazie Giovanni e buon imbarco ‘culturale’ a tutti! 

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