Le vie per arrivare alla cultura sono infinite e a volte hanno la forma di una Cinquecento che sfreccia per le montagne del Cadore, arriva Oltreoceano per attraversare gli States e poi, magari, finisce a Scampia… Non è stato facile ritrovarci con Antonella Agnoli, ci siamo rincorse off e online per qualche mese e poi un sabato pomeriggio di settembre (di quelli ancora sospesi tra estate e autunno) siamo riuscite a fare la nostra chiaccherata. Tutto era iniziato (per me) con la lettura di Caro sindaco parliamo di biblioteche, un libriccino in cui si parlava di biblioteche che ospitavano corsi di scacchi e ikebana, dove si poteva organizzare il compleanno del piccolo di casa e persino sposarsi. Idee a dir poco rivoluzionarie per il mondo compassato e polveroso delle biblioteche italiane, da sempre tallone di Achille del comparto cultura. Eppure quello che Antonella Agnoli descriveva in quelle pagine non era un catalogo di sogni, ma il racconto di un’impresa possibile, anche Italia. Volevo saperne di più.
Iniziamo da qualche dato personale: Antonella Agnoli come è arrivata a occuparsi di biblioteche?
E’ capitato per caso. Il mio non è stato un percorso formativo specifico, e non sarebbe stato facile in quegli anni. Dopo le magistrali a Belluno ho trascorso alcuni anni a Roma dove, invece dell’università (che non ho mai finito), iniziai a frequentare l’ambiente dei giovani artisti. A 20 anni arrivo a Venezia. Nel 1973 Venezia era un luogo magico: tutti gli intellettuali italiani passavano di lì, si parlava di politica fino a tarda notte e la casa in cui vivevo con il mio compagno era un porto di mare. A cena potevano arrivavare persone come Franco Basaglia, Luigi Nono, oppure gruppi di esuli cileni come gli Inti-Illimani o musicisti come gli Stormy Six. Un’esperienza straordinaria per una ragazza che arrivava dalle montagne. I trent’anni che ho trascorso a Venezia sono stati gli anni in cui ho conosciuto la cultura, la politica, la vita.
Un mondo decisamente lontano da quello ‘classico’ delle biblioteche?
Si, infatti… La biblioteca l’ho scoperta quando me ne hanno data una da fondare: prima non c’ero mai entrata. Fu il sindaco di Spinea, un piccolo comune vicino Venezia, una sorta di città-dormitorio per gli operai di Marghera, che mi propose di collaborare al lancio di un centro culturale all’interno di una villa ottocentesca appena restaurata, villa Simion. Fino a quel momento avevo seguito le campagne per i referendum sul divorzio e sull’aborto e giravo in Cinquecento per il Cadore facendo interviste alle donne con i mariti emigrati in Germania e Svizzera. Interviste che poi proiettavo su un grande schermo nelle piazze dei paesi, quando il marchingegno funzionava…
E da dove è partita per creare la biblioteca di Spinea?
Iniziai a studiare le biblioteche nordeuropee, le prime a essere trasformate in moderni centri culturali. Una tendenza che si stava affermando anche in Italia, dove cominciava a farsi sentire l’esigenza di creare luoghi di partecipazione in cui le persone potessero svolgere attività di varia natura, magari anche seguire uno spettacolo e dove il compito del bibliotecario non si limitasse alla scelta dei libri o alle pratiche burocratiche.
Decisi che a Spinea avrei creato un luogo diverso dal solito. Avevo ben chiaro che se avessi aperto uno spazio dove “mettere i libri”, avrei creato un servizio che esisteva già. E così, con un budget di 50mila lire, iniziai la mia avventura da bibliotecaria ‘di frontiera’.
Il primo passo fu creare una sezione di libri per bambini dove i piccoli lettori non si limitassero a fare i compiti, ma trovassero libri nuovi e originali, e potessero tranquillamente vivere la dimensione di una lettura libera, non scolastica. E il rapporto che si creò tra i bambini e luogo che li ospitava fu ottimo. Subito dopo arrivarono le mamme, e per loro creammo una collezione ad hoc.
Qual è stato il rapporto con le scuole del territorio?
Di grande collaborazione. Io mi ero data da fare per aiutare le insegnanti a creare le loro biblioteche scolastiche e quando chiesi il loro aiuto furono subito disponibili. Tra le prime iniziative che proposi ci fu quella di portare nella sede della nuova biblioteca tutto ciò che veniva creato in aula e fu un’esperienza sorprendente. Ricordo ancora una macchina che cucinava le uova, un teatro delle ombre, un cartellone di spettacoli realizzati dai ragazzi. Inoltre, attirate dall’idea di vedere le creazioni dei bambini, migliaia di persone entrarono in biblioteca, molte per la prima volta nella loro vita.
Creare spazi per i più piccoli fu la strategia giusta per portare gli adulti in biblioteca, e lo è ancora oggi. I bambini, infatti, sono gli interlocutori più preziosi che un operatore culturale possa avere: non accettano regole insensate, vogliono risposte serie ai loro dubbi, e in questo sono illuminanti. Noi adulti, invece, tendiamo ad accettare ciò che il sistema ci impone.
Da questa esperienza è nato il suo primo libro Biblioteca per ragazzi.
Biblioteca per ragazzi fu pubblicato nel 1999 dall’Associazione italiana biblioteche. Conoscevo bene il lavoro che Loris Malaguzzi aveva svolto a Reggio Emilia, in particolare sulla relazione tra bambino e spazio, e per questo motivo ho deciso di dedicare molta attenzione a questo tema nel libro. Il modo in cui i bambini si muovono e vivono lo spazio, persino come usano gli arredi. Per esempio, a un bambino viene molto più naturale ‘infilarsi’ in un oggetto, piuttosto che sedercisi sopra.
In Biblioteca per ragazzi ho descritto la mia esperienza di 26 anni trascorsi in giro per l’Italia a vedere come erano fatte le biblioteche e spiegare come era nata Spinea (ho insegnato a centinaia di giovani che ogni tanto incontro e mi dicono che sono diventati bibliotecari grazie alla mia passione). Ho anche raccontato le esperienze fatte all’estero – nel 1997 il Comune di Bologna mi chiese di fare uno studio sulle biblioteche europee e americane in vista dell’apertura della Sala Borsa nel 2001 – ricordo ancora il mio viaggio negli USA, ho attraversato in macchina paesini dove, oltre alla pompa di benzina e la chiesa, l’edificio più importante era proprio la biblioteca. Noi italiani non siamo abituati a questa centralità, non consideriamo la biblioteca un punto di riferimento per la comunità.
E poi, cosa è successo?
Nel 2000 lascio Spinea (all’epoca gli iscritti alla biblioteca erano il 50% degli abitanti) e accetto l’incarico del Comune di Pesaro e inizio a lavorare al progetto della Biblioteca San Giovanni. Si trattava di un ex convento, diventato poi distretto militare e in parte restaurato, destinato dall’amministrazione comunale a ospitare la nuova biblioteca della città. Il San Giovanni mi ha fatto passare molte notti insonni, pensando a cosa dovevo fare: decidere se abbattere un muro o no, quali pavimenti scegliere, dove situare l’ingresso, il centralino, gli uffici del personale.
Ero sicura di non volere un edificio chiuso, ma attraversabile e per questo la scelta cadde su una struttura a ruote. A seconda dell’ora del giorno o della settimana i diversi spazi della biblioteca assumevano una diversa fisionomia. Venne creata una saletta destinata ai concerti, un laboratorio dove si potessero frequentare corsi di vario tipo (anche di ikebana), spazi dove i giovani potessero incontrare il loro cantante preferito. Ma il messaggio più forte fu la decisione di aprire la domenica. L’idea era di offrire alla città un luogo sempre aperto, dove qualsiasi tipo di pubblico, anche con idee molto diverse tra loro, avesse modo di incontrarsi e mescolarsi, una grande piazza.
E proprio la “piazza” è la grande protagonista del suo libro forse più noto, Le piazze del sapere.
Le piazze del sapere venne pubblicato da Laterza nel 2009 ed ebbe in breve tempo un grande successo, anche all’estero (esiste una traduzione persino in giapponese). Credo che molto di questa fortuna dipenda dal fatto che finalmente una figura del mondo delle biblioteche fosse riuscita a trovare un linguaggio trasversale per descrivere luoghi in cui le persone trascorrevano del tempo, non solo per studiare o lavorare, ma perché vi stavano bene. Per me era fondamentale parlare degli elementi (anche fisici) che rendevano le persone disponibili a un’esperienza culturale.
Al termine “biblioteca” spesso è stata associata l’immagine di un luogo poco moderno (anche ‘polveroso’), come ha affrontato questo problema?
Sono due i temi da affrontare. Il primo: come far entrare in biblioteca le persone che non hanno familiarità con la cultura e la lettura. In Italia la biblioteca è da sempre identificata con un luogo di studio e di conservazione (tradizione che non appartiene ai paese anglosassoni) e diversamente da quanto è accaduto in Francia con Jack Lang, nel 1981, non abbiamo avuto alcun progetto nazionale che riguardasse la cultura. Il risultato è uno sviluppo a macchia di leopardo. Io sono convinta sia necessario fare attività che portino le persone in biblioteca e che questa si trasformi in un luogo con molteplici offerte. A Londra, per esempio, le biblioteche sono luoghi di grande aggregazione, ospitano corsi di tutti i tipi, così come le biblioteche americane ospitano il visitor center (l’ufficio turistico).
Il secondo tema chiave è l’abbattimento della cosiddetta “paura della soglia”. La paura, cioè, del “non è per me”; un tipo di disagio che la biblioteca non può permettersi. Su questo ho insistito molto nel libro, dedicando un intero capitolo alle soluzioni migliori per far sentire le persone ben accolte (e non a caso ho scelto come titolo “Il Dio delle piccole cose”). La disposizione di un bancone, giusto per fare un esempio, può dare messaggi precisi: ti voglio controllare, sono qui per aiutarti ecc….
Bisogna capire che la biblioteca è un luogo in grado di abbattere le nuove forme di analfabetismi (tecnologico, funzionale…) e che può essere un alleato prezioso, persino contro la disoccupazione. Una volta una bibliotecaria mi raccontò che un metalmeccanico che aveva perso il lavoro, iniziò a frequentare la biblioteca e dopo aver letto il manifesto che presentava un corso di shiatzu decise di iscriversi. Venne così coinvolto dalla cosa, che alla fine l’ha scelta come nuova carriera, diventando un maestro di shiatzu. Un’opportunità che non avrebbe avuto se fosse rimasto a casa a disperarsi. Io ne sono convinta: più sei ignorante più sei fragile.
Oltre alla San Giovanni di Pesaro quali sono le altre biblioteche di ‘nuova generazione’ in Italia?
Sono tante, a partire da quelle nate dal recupero di grandi edifici industriali come la Biblioteca Tilane di Paderno Dugnano, sorta in un vecchio opificio tessile il cui progetto è stato curato da Gae Aulenti; la Nuova Biblioteca Lazzerini di Prato, realizzata dentro un grande complesso industriale d’origine ottocentesca; la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, ospitata negli spazi delle ex officine Breda. In Umbria ci sono vari edifici storici ‘convertiti’, come la biblioteca di Maiolati Spontini (Ancona), nata all’interno di un’ex fornace restaurata. A Fano, invece, esiste l’unica biblioteca multimediale italiana finanziata da un privato (6 milioni di euro) la Mediateca Montanari Memo. In Toscana la Biblioteca di Scandicci è ospitata negli spazi di in una ex scuola elementare; mentre a Meda la Medateca ha inglobato il primo piano di un edificio moderno, un grande cubo rosso. E dall’incontro vecchio e nuovo sono nate anche la Biblioteca comunale di Albinea (Reggio Emilia) e quella di Finale Emilia (Modena). In questi giorni si è aperto Cinisello Balsamo Il Pertini, 5.400 metri quadrati su cinque piani, circa 100.000 documenti, un investimento di 12 milioni di euro: all’inaugurazione c’erano migliaia e migliaia di persone. Come si può notare quasi tutte si trovano nel centro nord, mentre al sud, dove ce ne sarebbe un gran bisogno (visto il numero dei bambini e quello dei disoccupati) sono una rarità.
La proposta di far convivere in biblioteca informazione, ricerca e svago le ha attirato molte critiche (nel suo ultimo libro confessa di teme che ci siano ancora tante bamboline vodoo con il suo nome in bella vista infilzate da spilloni). Perché?
I colleghi mi hanno criticato spesso per aver dato alle biblioteche un’impronta troppo ‘sociale’, in contrasto con l’immagine classica di luogo di studio (l’idea di aprire le porte anche ai barboni non è piaciuta…), e di aver avvicinato troppo la figura del bibliotecario a quello di un assistente sociale. C’è poi il problema del coinvolgimento dei volontari, idea che continuo a sostenere con forza, e che è stata letta come una minaccia per quanti in biblioteca già lavoravano. Ma se rivolgersi ai volontari è un rischio, non è più rischioso ‘agevolare’ la chiusura delle biblioteche per mancanza di personale? Sono convinta che in questa difficile congiuntura economia i volontari siano una risorsa. Non possiamo permetterci che le biblioteche spariscano; è necessaria una mobilitazione generale in difesa delle biblioteche, dobbiamo innescare un grande passaparola.
E’ da qui che nasce Caro sindaco parliamo di biblioteche?
Si. Caro sindaco parliamo di biblioteche è nato come libro volutamente militante. Sentivo la necessità e l’urgenza di portare all’attenzione di più persone possibile questo argomento e di rivolgermi a un interlocutore preciso. E’ stata un lavoro importante, ho trascorso mesi a presentarlo in tutta Italia: un’esperienza stancante, ma appagante. Il nostro paese, guardato dal basso, è sicuramente migliore di quanto si pensi, c’è veramente tanta gente che ha voglia di dare qualità alla propria vita. Ho incontrato amministratori pubblici con pochi (pochissimi) soldi, ma consapevoli che fosse arrivato il momento di rinunciare a qualche festival della porchetta per investire su un luogo importante per la comunità come una biblioteca. Sicuramente c’è ancora molta strada da fare per avvicinare politica e cultura (non si può parlare solo di libri o di orari con un amministratore!), bisogna trovare un linguaggio comune. Le biblioteche non sono la soluzione di tutto, ma sicuramente sono un attore importante nello sviluppo di un territorio.
Una biblioteca, secondo lei, dovrebbe essere il cuore o la testa di una comunità?
Il cuore.
Ha un appuntamento con Bill Gates per convincerlo a sostenere il progetto di una nuova biblioteca, quali argomenti sceglierebbe per questa mission impossible?
Bill Gates ha fatto veramente tanto con la sua fondazione per tante cause nel mondo. Quello che mi piacerebbe suggerirgli, visto il suo grande impegno contro le malattie in Africa, è di destinare parte dei suoi investimenti alle scuole di quel continente. Gli proporrei di riempire aule e biblioteche di libri, di farli arrivare anche nei posti più sperduti, magari in formato ebook. Che bello se anche nei piccoli villaggi i bambini potessero ricevere un tablet su cui leggere Pinocchio la Bella addormentata, ma anche le fiabe arabe o quelle indiane.
Per il successo di una public library è più importante un sindaco intellettuale o un imprenditore illuminato?
Io non credo che in Italia esistano imprenditori illuminati, non è nella nostra tradizione, e l’assenza di una seria politica di sgravio fiscale in questo senso non aiuta. L’industriale italiano tende ad acquistare beni rifugio, come opere d’arte contemporanea, le sue sono scelte soprattutto di tipo personale. La biblioteca, poi, non è certo vista come luogo che dà un grande ritorno d’immagine. E’ duro da ammettere ma non ci si siamo certi conquistati questo tipo di apprezzamento in Italia.
Tuttavia, il problema centrale rimane la volontà politica: i progetti culturali se non sono fortemente condivisi dall’amministrazione non hanno futuro. E’ la politica che deve capire e decidere come e quanto investire sulla cultura.
Ultima domanda: ricorda il suo primo incontro con la cultura?
Da ragazza ascoltavo incantata le storie dei partigiani nelle osterie bellunesi. Una magia che ho ritrovato nei racconti degli ospiti che arrivavano a casa mia a Venezia. All’inizio ne ero intimidita, ma oggi posso dire che sono stati loro la mia scuola. Mi hanno insegnato a credere che realizzare i nostri sogni è possibile se non ci sentiamo soli e abbiamo accanto chi la pensa come noi.
Qualche giorno dopo questa intervista, mi sono imbattuta in un servizio televisivo su Scampia. La telecamera a un certo punto ha inquadrato un vecchio edifico abbandonato su cui qualcuno avevo scritto “La cultura è l’unica arma di riscatto”. Non so come mai… ma ho pensato subito che qui ci fosse “pane per i tuoi denti”, Antonella! Ovunque ti porti la tua prossima avventura: buon lavoro!
p.s. Ho chiesto ad Antonella di definirsi e mi ha confessato di sentirsi “curiosa e intuitiva”. Indovinate quali doti io considero fondamentali per un operatore culturale?