Non so voi, ma io adoro gli aeroporti. Luoghi che molti considerano impersonali e che a me trasmettono grande energia. Tra un gate e l’altro mi capita spesso di scrutare volti e bagagli alla ricerca di un viaggio o di una storia da intercettare.
Considero ogni aeroporto uno spazio dove i progetti, le aspettative e a volte anche i sogni di tante persone s’intrecciano per qualche ora, creando trame di vita che rispecchiano l’idea di cultura che amo condividere: una rete di scie che non aspettano altro che di essere messe in moto.
E di messe in moto ‘culturali’ Stefano Monti, fondatore e anima di Monti&Taft, realtà impegnata da oltre dieci anni a far interagire economia e cultura, in Italia e non solo, è sicuramente un esperto. Ci siamo incontrati nella sede romana del gruppo, a poca distanza dal Circo Massimo, per una chiaccherata che ha preso ben presto la forma di un racconto di viaggio un po’ corsaro tra passioni artistiche, sfide controcorrente e tre idee (di cultura) da affidare al futuro. Ma partiamo dall’inizio.
Quando economia e cultura si sono incontrati per la prima volta nella vita di Stefano Monti?
Nel 1999, venni coinvolto in un progetto che si proponeva di analizzare il cambiamento del valore degli immobili situati a New York nel quartiere in cui si era insediato il MoMA PS1. Si trattava di un’iniziativa promossa dal Comune di New York per studiare l’impatto della cultura sulla città, uno tra i primi progetti del genere a livello mondiale.
Sino a quel momento si era assistito a fenomeni di rigenerazione urbana spontanei, con la nascita di gallerie d’arte a Soho e Chelsea, in questa occasione invece si trattava di analizzare l’inserimento di un museo in un’area considerata di scarso valore.
La città era agli inizi di quella trasformazione che l’avrebbe resa agli occhi di tutto il mondo meno pericolosa e più vivibile. Un cambiamento raggiunto grazie a una mirata politica sulla sicurezza, ma stimolato anche dall’investimento in arte e cultura.
Quali sono stati i risultati della ricerca?
Nel giro di due anni, a seguito dell’inserimento del MoMA PS1, il prezzo degli immobili aveva registrato un aumento del 25/30%. Un risultato decisamente sorprendente.
E dopo New York come è proseguito il percorso di avvicinamento al mondo della cultura di Stefano Monti?
Da New York mi sono trasferito a Londra. Nel 2003 ho deciso di tornare in Italia, dove ho iniziato a frequentare l’ambiente artistico di Pietrasanta, in particolare quello dei grandi scultori, quali Arnaldo Pomodoro, Giuliano Vangi e Claudio Capotondi. Ero attratto dall’idea di curare gli interessi degli artisti e, in particolare, degli scultori, mettendo a sistema la mia competenza economica con la sensibilità verso il mondo dell’arte.
È in seguito di questa esperienza che, nel 2004, è nata Monti&Taft. Un progetto innovativo in una fase storica in cui erano ancora pochi a guardare alle ricadute economiche della cultura e sin dall’inizio mirato a favorire l’interazione fra economia e valorizzazione del patrimonio culturale.
Essere dei pioneri è stato facile?
A spingerci era soprattutto il desiderio di raccontare quello che succedeva nel mondo della cultura in quel periodo e per questo motivo, sin dall’inizio, abbiamo affiancato al progetto un blog, Miss Marple, esperimento di nicchia (avevamo circa 700/800 utenti quotidiani), ma molto apprezzato.
A distanza di dieci anni, la voglia di essere aggiornati e aggiornare i lettori sui temi caldi dell’economia della cultura non è diminuita, anzi. L’area editoriale della società si è notevolmente sviluppata, tanto da includere oggi più testate, alcune da noi direttamente prodotte, come ad esempio Tafter e Tafter Journal, altre per le quali sviluppiamo contenuti e, in alcuni casi, servizio di raccolta pubblicitaria.
Come è strutturato oggi il gruppo Monti&Taft?
In Italia abbiamo uffici a Roma, Milano, Bologna e Venezia, all’estero una sede a Londra e una a Malta. Lo staff diretto è costituito da 16 persone, affiancate da una trentina di professionisti esterni.
Nel suo profilo LinkedIn leggo: “Cultural economist, entrepreneur and publisher”, se dovesse dare una percentuale a ognuna di queste tre ‘anime’, quali sceglierebbe?
Fondamentalmente sono un uomo che fa impresa. Il mio obiettivo è generare valore economico facendo leva su un asset che ritengo strategico per la crescita di questo paese, ovvero la cultura e i temi ad essa strettamente connessi, come il turismo, l’editoria e la responsabilità sociale d’impresa.
E ciò a mio avviso non significa solo fare profitto, ma anche creare occupazione. Un aspetto di cui vado particolarmente fiero è che il nostro gruppo e le nostre testate non hanno ricevuto alcun sostegno economico pubblico. Dopo un iniziale finanziamento privato, dal 2006 siamo cresciuti esclusivamente autosostenendoci.
Quindi, tornando alla sua domanda iniziale, direi che probabilmente la percentuale più alta è quella di economista della cultura, sebbene questo ambiente abbia accolto la mia figura con una certa diffidenza.
Come mai?
Credo sia una reazione legata al mio percorso di studi, non di stampo umanistico, ma più prettamente economico. Ho conseguito una laurea in Scienze Politiche e un master alla London School of Economics e, pur ritenendo fondamentale la ricerca, ho preferito l’azione e l’impresa, il confronto quotidiano con le problematicità/opportunità offerte dalla valorizzazione della cultura.
Un aspetto non sempre letto positivamente in un sistema paese che guarda alla cultura come un bene statico, da conservare e tutelare, senza ancora oggi coglierne pienamente le potenzialità. Nonostante l’iniziale diffidenza, tuttavia, ammetto che il confronto con l’ambiente dell’economia della cultura è vivo e ampio.
Questo essere ‘non allineato’ ha in qualche modo frenato il suo lavoro?
No, tutt’altro. Noi facciamo profitto in modo diverso dagli altri semplicemente perché abbiamo scelto un settore a nostro avviso ricco di potenzialità inespresse, quale la cultura, e lo abbiamo affrontato con un approccio metodologico multidisciplinare, che riteniamo sia la risposta più adatta per affrontare la complessità dell’attuale sistema culturale. È questa la ragione per cui ci occupiamo di analisi dell’impatto della cultura nel tessuto sociale ed economico.
Naturalmente, come le dicevo, siamo consapevoli che non tutti condividono questa impostazione. Ricordo ancora la prima persona a cui feci un colloquio all’inizio della nostra attività: era una ragazza che non appena appurò la natura privata della società e l’obiettivo di generare profitti attraverso la cultura, preferì rinunciare al lavoro perché non ne condivideva la scelta.
Nel sito del gruppo vi presentate così: “Hai delle domande da farci? Probabilmente abbiamo già una risposta!”. Come ci siete riusciti?
La nostra crescita è strettamente legata alla crisi che ha colpito la pubblica amministrazione, non più in grado di affrontare con efficacia dinamiche in rapida evoluzione.
Oggi, Monti&Taft si occupa soprattutto di strategie per la valorizzazione dei contenuti e di progettazione per le imprese in un’ottica di investimento culturale. Lavoriamo su tematiche trasversali, quali il rapporto tra cultura e mondo dell’immobiliare, tra cultura e mondo della finanza e degli investimenti esteri.
Chi sono i vostri clienti?
Inizialmente erano soprattutto Regioni, Province, Comuni e musei, realtà che ci hanno aiutato tantissimo a crescere. Abbiamo lavorato molto nella stesura di bandi, un ambito in cui abbiamo sviluppato un forte know how.
Nel tempo, sono arrivati anche spazi pubblici, costruttori e tutti quei soggetti che hanno compreso quanto la cultura potesse diventare un’opportunità per creare valore aggiunto e una leva strategica di sviluppo.
Non proprio facile come compito…
Diciamo che è una questione di prospettive. Per noi è la cultura a rappresentare un’opportunità per i nostri clienti e non il contrario. Ci troviamo davanti a soggetti pubblici e privati la cui esigenza è far fronte a un’inedita crisi economica.Inedita non solo perché non accenna a lasciare il passo alla crescita, ma soprattutto perché è sintomo di una profonda trasformazione di processi e di prodotti.
Il settore immobiliare è in una fase di stallo, le imprese avvertono la necessità forte di riposizionarsi e non sempre riescono a intercettare la domanda di consumatori sempre più attenti al profilo esperienziale. In questo senso, la cultura e l’arte contemporanea sono un’opportunità per innescare innovazione, arricchimento simbolico e, non ultimo, profitto in termini di investimento. Aspetto quest’ultimo sinora troppo spesso trascurato.
Che idea si è fatta delle politiche culturali italiane?
Personalmente sono molto preoccupato per il nostro paese. C’è una classe politica che non si rende conto che se è vero che siamo in una fase di scarsità di risorse economiche, ben più grave è la carenza di risorse umane e di capacità imprenditoriali. Per venti anni abbiamo vissuto in un sistema talmente assistenziale da annullare la capacità di produrre ricchezza, convinti come eravamo che in ogni caso i soldi sarebbero arrivati dallo Stato.
Una situazione che ha aperto grandi opportunità per il nostro gruppo, che sin dall’inizio ha preferito confrontarsi con il mercato e che si trova oggi a dialogare e a mettere a disposizione le proprie competenze a tutti quei soggetti, pubblici e privati, ‘costretti’ ad agire in una logica di mercato e di business.
Dall’altra parte, avendo un forte senso sociale e civico, non posso fare a meno di osservare che l’attuale situazione mi preoccupa.
Si pensi, ad esempio, allo strumento del finanziamento europeo visto come fonte di denaro, laddove in realtà la sua funzione primaria dovrebbe essere quella di fare rete. Anche se, devo ammettere, ho visto pochi progetti europei generare un vero impatto economico. Purtroppo…
Cosa manca a suo avviso?
Credo che tra i principali problemi vi siano l’eccessiva teoria e il timore di fallire, che in Italia è ancora un tabù. La ricerca fine a se stessa e la mancata osmosi tra ricerca universitaria e impresa sono da considerarsi ambiti d’intervento prioritari.
Chi fa ricerca spesso non ha la percezione che si possa fare del business con essa e creare quell’appeal di cui un’impresa ha bisogno per decidere di investire. Inoltre, abbiamo politiche strategiche d’indirizzo non applicate e rispetto alle quali non sono stati trovati neanche gli strumenti giuridici per capire come attrarre risorse.
La cultura non sa comunicare la sua ‘priorità’?
Non credo. Il problema è che è stato fatto un grandissimo lavoro sull’offerta di cultura, ma scarsa attenzione è stata rivolta a due temi centrali: il primo è quello della domanda di cultura, per capire come alimentarla, formarla e in che modo indirizzarla; il secondo è il tema dei nuovi mercati, delle future generazioni, su cui non è stato fatto alcun tipo di lavoro.
La cultura è il prodotto con il più grande target di riferimento che esista, dai 3 ai 90 anni. Il problema non è come si comunica, ma capire esattamente a chi comunicare, come, in che modo e soprattutto perché. Purtroppo siamo in un mondo di dati fuorvianti che non aiutano ad agire in questo senso.
Cioè?
Per fare un esempio: se è vero che è aumentata la domanda di cultura, non si è tuttavia registrato un aumento in termini numerici. In realtà, sono sempre le stesse persone che già consumavano cultura che oggi spendono di più. Un meccanismo destinato a esaurirsi a lungo termine.
Quando sento dire che nel mese di agosto i musei italiani hanno incrementato i loro guadagni, mentre in realtà l’aumento dipende dal biglietto d’ingresso pagato dagli over 65 (azione che non interviene in alcun modo sulla domanda), capisco che siamo ancora lontani dal renderci conto che la fetta su cui bisogna lavorare è quella che sta in basso, quella delle nuove generazioni.
E’ lì che bisogna intervenire con delle politiche culturali innovative, che non possono sempre essere solo di scontistica. E’ lì che bisogna mettere in campo azioni di più ampio respiro.
Cosa ne pensa della Riforma avviata dal ministro Franceschini?
Della manovra strutturale in atto l’unica operazione che ritengo positiva è il decentramento amministrativo che permette ai musei di mantenere i propri incassi sul territorio di pertinenza, un’azione fondamentale. Sull’Art Bonus mi sono già espresso criticamente in varie occasioni: la reputo un’azione di finanza stretta e non di coinvolgimento diretto dei privati. Non vedo alcuna partecipazione, ma solo un’agevolazione fiscale.
Credo che il grande tema su cui bisogna lavorare sia quello del rapporto pubblico e privato. Solo grazie a una stretta sinergia tra pubblico e privato si può ripartire per cambiare veramente la cultura e l’Italia.
Quanto conta nell’attività del gruppo Monti&Taft l’apertura alla dimensione internazionale?
L’apertura internazionale per noi è centrale. Su Londra è stata facile realizzarla perché è un luogo che conosco bene e posso dire con soddisfazione che sono tanti i clienti arrivati direttamente dal territorio.
Ma abbiamo lavorato anche tantissimo sul bacino del Mediterraneo, avviando progetti che attualmente sono in fase di stand by per motivi di natura politica, ma che contiamo di riprendere appena sarà possibile. Con molti di questi paesi manteniamo ottime relazioni.
E’ un terreno fertile sul piano culturale?
Enorme! L’idea andreottiana di un’Italia punto nevralgico del Mediterraneo, che all’epoca scandalizzava, oggi è di vitale importanza.
Sono aree complesse ma ad alta densità di opportunità.
Come siete riusciti a entrare in sintonia con paesi così pieni di contraddizioni?
Storicamente l’idea che ha prevalso è quella di avere a che fare con luoghi da conquistare, mentre si tratta di paesi che negli ultimi dieci anni hanno avuto una classe dirigente molto attenta alle dinamiche di sviluppo, alle nuove tecnologie, all’analisi delle domande.
Aree come l’Iran o l’Iraq hanno delle potenzialità di crescita enormi. Chi si occupa di cultura non può non conoscere l’Iraq, che ha un patrimonio incredibile e dove il nostro ministero sta conducendo un’operazione di altissimo livello (basti pensare al restauro del museo internazionale di Baghdad).
Si tratta di iniziative di altissimo valore culturale che, purtroppo, il più delle volte non hanno alcuna ricaduta sul piano economico. E’ come se noi italiani non riuscissimo a dare un valore economico alle nostre eccellenze.
Questo ha a che fare con la visione ‘conservativa’ del patrimonio tipica delle Sovrintendenze?
Credo che le Sovrintendenze abbiano finito per assomigliare un po’ ai sindacati, con i loro aspetti positivi e negativi. Hanno protetto il paese dal pericolo “vandalizzazione” degli anni ’70 e ’80, facendo un’operazione straordinaria di difesa del territorio; ma questo passato ora è diventato un vincolo pesantissimo.
Credo sia arrivato il momento di cambiare. La metafora ‘telefonica’ che ha usato Matteo Renzi rispecchia lo stato delle cose. L’ho trovata divertente!
Le tre strade che la cultura italiana dovrebbe percorrere per costruire un futuro sostenibile?
Primo: investire tantissimo nella formazione dei giovani. Il nostro gruppo preferisce assumere persone alla prima esperienza, adeguatamente affiancate da advisor esperti, in modo tale garantire elevati livelli di eccellenza e, al tempo stesso, trasmissione di know-how.
A differenza di venti anni fa, quando c’era un livello medio più alto e poche punte di eccellenza, oggi abbiamo molti casi di eccellenza, il problema è che queste persone non rimangono in Italia ma vanno all’estero.
Chi lavora nel nostro staff in questo momento è il nostro patrimonio più prezioso, l’asset più importante del gruppo.
Ecco perché ritengo sia prioritario investire sulle risorse umane e lavorare tantissimo sugli spin off universitari, permettendo agli studenti, anche prima della laurea, di entrare in una dimensione lavorativa vera.
E poi?
Secondo punto: occorre scardinare, sfoltire, semplificare gli organi di controllo e non solo riformare (questa quinta riforma del MIBAC sono certo che creerà ulteriore confusione). Ci sono troppe persone che non scelgono, mentre abbiamo bisogno di capacità politica di indirizzo forte.
E’ necessario che la macchina dell’amministrazione pubblica si apra anche a professionisti che vengono dal settore privato. C’è veramente tanto da fare: ripensare i servizi museali, definire nuovi standard qualitativi, scegliere strategie di pricing che non propongano solo l’aumento del biglietto e tanto altro ancora.
Infine, abbiamo bisogno di una lobby più forte a livello internazionale. Contiamo troppo poco sullo scenario internazionale, pur disponendo di un livello di preparazione molto alto. Noi italiani siamo abituati ad affrontare le complessità, viviamo in un perenne stato di “problem solving” e questo fa la differenza. Esperienze e capacità veramente non ci mancano.
In un’immaginaria scatola per i posteri Stefano Monti cosa sceglierebbe di conservare?
Sceglierei la capacità di essere corsari, che per me vuol dire unire il coraggio di fare scelte alla capacità di analisi.
L’Italia è un paese da sempre diviso tra corsari e analitici, una contrapposizione che non ha fatto altro che alimentare uno stato di perenne tensione, mentre è nella conciliabilità di questi due estremi la chiave di tutto.
Poi vorrei trasmettere l’idea di una cultura come elemento non più etereo, ma concreto e centrale nella società. Vorrei che prima di pensare a come fare cultura, pensassimo a come si possa sostenerla. E poi scegliere una scultura di Tony Cragg.
L’incontro con la cultura che ha lasciato il segno nel suo percorso professionale?
Sono stati due: quello con Michele Trimarchi e con Emilio Cabasino.
Stefano Monti tra cinque anni dove sarà?
Probabilmente tornerò a vivere a Londra.
E che ne sarà di Monti&Taft?
Monti&Taft sarà in grado di vivere indipendentemente da me. Non ho dubbi.
Arrivati al termine dell’intervista anche io non ho dubbi. Le scie dei viaggi di Stefano Monti riprenderanno presto a farsi vedere (e sentire). Mentre io, lo confesso, ritornando verso il Circo Massimo sono stata assalita dal desiderio impellente di fare un check-in. Culturale, naturalmente!